Brescia Museo Diocesano

3 - 27 ottobre 2015

Atti del Convegno

Il poeta

Vittorio Nichilo1

Nel 1847 a Brescia tra le mura dell’Ateneo si svolge una battaglia, tutta figurata beninteso, che niente ha a che vedere con l’inferno di ferro e di fuoco che travolgerà la città di lì a un paio d’anni: il conte Luigi Lechi si scontra con padre Maurizio da Brescia sulla traduzione degli inni ebraici della Bibbia.
Su questo scontro torneremo poi ma al momento concentriamoci su questo padre Maurizio: come potete immaginare altri non è che il nostro Malvestiti. Nella primavera del 1849 prenderà la via del Cidneo e salverà Brescia dalla distruzione totale, diventando una delle icone del nostro Risorgimento.
In quel 1847 padre Maurizio però è ancora oltre che l’uomo di fede, ricordato anche in seguito, anche un uomo dalla raffinata e poliedrica cultura, aspetto di cui si perderà traccia nelle pubblicistica risorgimentale che ne farà un’icona di tipo politico-patriottica.
Malvestiti ha settant’anni nei giorni della querelle con Lechi, un’età che, vista l’aspettativa di vita ai tempi, lo collocherebbe d’ufficio tra i degni di venerazione. Sul nostro padre aleggia però, inoltre, l’aura della persona dalla cultura raffinata, che ha avuto modo di frequentare ambienti di primordine e personaggi di spicco. Inoltre ha ancora un’intelligenza viva supportata da una cultura costruita con metodo pur attenta alla modernità, come dimostra l’attenzione per scienza ed archeologia. La fortuna di una lunga vita ha permesso, inoltre, a Malvestiti di attraversare non solo due secoli, essendo nato nel 1778 e scomparso nel 1865, ma anche mondi, modi culturali diversi che spiegano l’originalità della figura intellettuale del nostro religioso.
Padre Maurizio si forma in una società che è ancora di Ancien régime, benché sensibile alla cultura illuminista ed in centri di provincia; il suo corso di studi ha un’impostazione ben precisa, geometrica verrebbe da dire, con la maturità classica e quindi un iter che si svolge all’interno dei conventi francescani, da Quinzano a Ferrara, per arrivare anche alla docenza come lettore di Filosofia nel complesso dell’Ara Coeli a Roma. Tutti questi elementi spiegano la poliedricità di interessi, dall’astronomia alla botanica, dall’archeologia alla musica e alla letteratura. Malvestiti fondamentalmente rimarrà un erudito del Settecento illuminista in avanscoperta nell’Ottocento romantico e positivista. Scorrendo biografia ed opere di Malvestiti, sia come studioso che come docente, anche da istitutore privato dei figli di Luciano Bonaparte, balza subito all’occhio però la predilezione per un campo ben definito: quello scientifico. Quindi quando parliamo, come faremo, del Malvestiti letterato stiamo parlando di un ambito ben preciso ma limitato di una cultura che, come quella del nostro francescano, rimane vasta ma solidamente enciclopedica.
Inoltre a ben guardare la produzione letteraria di padre Maurizio è fondamentalmente concentrata su un aspetto che da una parte è particolarmente legato ad un approccio scientifico e alla grande attenzione alla musica, grande passione del nostro religioso, e dall’altra è molto legato alla fedeltà alla parola tipica di chi ha studiato teologia: la traduzione.
Ad ogni modo trattando del binomio Malvestiti/letteratura bisogna distinguere Malvestiti letterato e Malvestiti e i letterati.
Il letterato Malvestiti è da una parte un esponente tipico della società di Ancien régime, con la produzione di occasione o l’impiego dei classici nelle lezioni, e dall’altra vitalmente inserito nell’interesse tutto romantico per la traduzione.
I testi d’occasione privilegiano il sonetto, una forma estremamente sensibile e colloquiale, con la canzone insegnata negli studi umanistici dei tempi, ma sono testi semplici solo ad una prima lettura, come il sonetto Sopra la magnifica città di Brescia, scritto nel 1856 per ricordare lo scoppio della polveriera a porta San Nazaro avvenuto nel 1769. È evidente che l’episodio per quanto doloroso della Brescia settecentesca fornisce solo l’assist per evitare la censura austriaca e ricordare la più recente, allora, tragedia delle Dieci giornate. La città che “ricca d’oro” echeggia “di sospiri, grida, un suon dolente” è la Brescia che ancora nel 1856 livida contava le sue ferite, e dove qualcuno si interrogava se il tutto non fosse stato opera della possente “Man divina” di cui a noi, commenta padre Maurizio, “non lice discernere pietà o ira, nelle nebbia avvolti”. Estremamente classico il sonetto dedicato all’anima che si presenta al tribunale divino per il giudizio, con l’immagine canonica delle bilance e della spada che pesa sulla testa del giudicato. Una parola classicamente impostata caratterizza, dunque, questa produzione verrebbe da dire quotidiana di padre Maurizio, una parola che è semplice senza essere sciatta, concreta ma non ruvida, come peraltro le fonti raccontano fosse l’eloquio del nostro religioso.
La filigrana dei classici emerge anche in un’attività per lui quotidiana come una lezione di stenografia in cui utilizzerà quel passo del canto VII della Gerusalemme liberata in cui si ricorda Erminia tra i pastori.
Nel Malvestiti letterato privato bisogna poi, come per tutti gli uomini di cultura fino ad anni recenti, aggiungere l’epistolario, capace di una serie di registri estremamente vario; è in grado di riproporre emozioni e sensazioni, dal tono bonario e comico in una lettera del 1851 che racconta un suo viaggio al convento di Rezzato a quello tragico ma indomito nelle missive a Carlotta ed Alessandrina Bonaparte in cui descrive la Brescia delle Dieci giornate.
Il Malvestiti letterato pubblico, invece, si muove in una produzione cara alla sensibilità romantica: la traduzione e un’attenzione alle radici originarie, della Chiesa medievale, come nel caso della trasposizione in italiano del poema Carlo Magno di Luciano Bonaparte, e della parola biblica, con le osservazioni su i salmi ebraici.
La prigionia, peraltro dorata a Ludlow, permette a Luciano Bonaparte di dedicarsi alla stesura del poema Carlo Magno o La chiesa liberata, affiancato da padre Maurizio che procede alla traduzione in terza rima, il verso principe della poesia epica italiana.
Prefazione, argomenti e primi sei canti sono approntati dal nostro religioso, con la dedica a Pio VII di un poema che verrà stampato a Roma nel 1815 da Luciano Bonaparte, terminata la prigionia inglese. È interessante notare come in questo poema convergano clima culturale e politico dell’epoca: alta politica e primo romanticismo si intrecciano in modo indissolubile. La scelta di Carlo Magno non è casuale se misurata nell’Europa di quei primi anni dell’Ottocento: la figura sarebbe tornata nell’Adelchi, con Manzoni, perché tra quelle fondanti in quel Medioevo visto dai Romantici come età aurorale dell’Europa. Carlo Magno inoltre è un’allegoria politica, il primo imperatore europeo descritto dal fratello dell’imperatore europeo allora sul trono, fratello che aveva tentato sempre un accordo con la Santa Sede combattuta invece, per tanto tempo, da Napoleone. E viste le vicende degli anni in cui il poema fu scritto possiamo vedere nel testo un lascia passare per sopravvivere al possibile, e poi avvenuto, naufragio dell’epopea bonapartista: Luciano infatti, fenice dalla cenere, continuò ad essere il Principe di Canino. E questo legame tra la Francia e la Santa sede nella fantasia poetica politica di Luciano Bonaparte, rimase come una consegna alla famiglia. È solo il caso di ricordare che Roma divenne capitale d’Italia quando gli zuavi di Napoleone III si erano ritirati dalla città eterna. La collaborazione con padre Maurizio fu solo artistica? O politica? La Civiltà Cattolica nel maggio del 1900, commentando una vita di Malvestiti scritta dall’Albasini, alludeva al tentativo di Giuseppe e Luciano Bonaparte di coinvolgere fra’ Maurizio in un’azione diplomatica nei confronti del Papa. Nel caso comunque poema e mediazione politica erano arrivate fuori tempo massimo. Col senno del poi e fuori da polemiche risorgimentali che ancora animavano il primo Novecento, possiamo invece vedere nella partecipazione alla traduzione del romanzo del nostro padre il legame sodale tra due uomini, Bonaparte e Malvestiti, che erano anche due uomini di cultura. L’ipotetica azione diplomatica di cui Malvestiti avrebbe dovuto essere il latore va ricercata invece, a mio parere, non in astruse dietrologie, ma nell’essenza prima di padre Maurizio: essere un uomo di pace, un costruttore di ponti e non di muri, come avrebbe confermato nella sua mediazione a Brescia nelle giornate del 1849.
L’eco pubblico maggiore del Malvestiti letterato rimase tuttavia legato alla sua memoria sulla “Melometria dei cantici della Sacra Scrittura e particolarmente del mosaico”. Essa fu presentata a Roma nel 1845, nell’accademia arcadica di Roma, pubblicata poi sul Giornale di Roma nel giugno di quell’anno. Maurizio avrebbe poi riproposto il tutto all’Ateneo di Brescia nel gennaio del 1847, suscitando una querelle con il conte Luigi Lechi, riportata dagli atti dell’Ateneo di quello stesso anno. Cosa sosteneva padre Malvestiti? Che il metro ed il ritmo della poesia ebraica altro non erano che un accordo di note musicali rispondenti alle lettere iniziali di ogni sillaba di tutte le parole di ogni verso. E come arriva ad immaginare il tutto Malvestiti? Facendo ricorso, non a caso “col soccorso della scienza e arte musicale nella quale ci siamo esercitati fin dall’infanzia”. Nella Brescia di primo Ottocento la posizione di Malvestiti destò interesse anche perché in diversi si stavano cimentando in esperimenti di traduzione, stimolati dal Foscolo, sulla scia di esperienze come quelle del nostro Giovita Scalvini. Anche la traduzione dei testi sacri destava un interesse che non si era mai sopito, per lo meno dai tempi della chiesa trionfante del Querini. La posizione espressa da Malvestiti non piacque al Lechi che sostanzialmente esprimeva forti dubbi sulla possibilità di riproporre una musica dei salmi biblici.
Abbiamo visto come parlando di Malvestiti e la letteratura si debba parlare necessariamente di Malvestiti ed i letterati: il religioso conobbe diverse persone di cultura tanto del mondo delle scienze quanto delle umane lettere. Citiamone due note ai più e che ben rendono la capacità di questo frate di rapportarsi a contesti diversi, senza il minimo impaccio. Nelle giornate tormentate e confuse del maggio 1815, prossimo il collasso dell’impero di Bonaparte, padre Maurizio si incontra con Madame de Staël, la prima donna del movimento romantico, nel castello di Coppet ma nell’ambito di un viaggio in cui avrebbe incontrato a Lucerna il nunzio papale.
Altro letterato che incontrò fu quello Stendhal, quando quest’ultimo era console francese a Civitavecchia. Lo scrittore era peraltro anche una conoscenza delle nostre contrade: era arrivato a Brescia con le armate napoleoniche, aveva alloggiato in quello che è ora palazzo Raimondi, e nelle sue memorie non aveva fatto mancare apprezzamenti per lo spiedo e le donne dell’aristocrazia bresciana. Nel 1831 il brillante ufficiale francese è ormai un signore un po’ imbolsito che rimane però fortemente impressionato, lui decisamente anticlericale, da Malvestiti, dalla sua vasta cultura scientifica ed archeologica. Stendhal rielaborerà il tutto nella Certosa di Parma, dando al suo padre Blanès, tutore di Fabrizio, i tratti del nostro Malvestiti, quel “venerabile padre Maurizio” da cui era rimasto affascinato. I fatti del 1849 avrebbero steso un velo d’oblio su questo ed altri aspetti del più vasto universo culturale in cui Malvestiti si mosse con competenza e quell’umiltà che proviene dal carattere, dalle scelte e dall’autorevolezza del nostro padre Maurizio. Eppure ebbe una vita nel mondo della letteratura da combattimento come potremmo definire la pubblicistica risorgimentale: divenne la bandiera del cattolicesimo dapprima bresciano e poi nazionale dilaniato dalla questione romana, la possibilità di poter dire presente anche a quella parte dell’opinione pubblica che si opponeva a Zanardelli ed in generale alla prima politica unitaria con connotazioni venate da certo anticlericalismo o percepito come tale. La costruzione del modesto cippo in Castello fu una specie di trincea in cui si scontrarono le diverse anime bresciane post-risorgimentali. Tanto padre Maurizio quanto quel don Pietro Boifava, eroi delle Dieci giornate, diventarono bistrattate icone di una fazione e dell’altra. Sta a noi forse il compito, ora, di raccogliere l’eredità completa di padre Maurizio, come, qualche anno fa, è stato fatto per don Boifava, sempre con la Fondazione Civiltà Bresciana.


Note:

1.     Docente di materie letterarie, giornalista pubblicista, ricercatore di storia locale ed autore di saggi pubblicati da editori nazionali e locali.
maggio 2016
master.